Sono più “vecchio” rispetto alla gran parte delle persone che leggono e frequentano questo blog. Molti di voi hanno solo letto nei libri o in vecchi resoconti di emergenze simili a questa ma che sono state limitate territorialmente: il terremoto del Belice, il colera in Campania, il terremoto dell’Irpinia. Anche io ricordo a malapena l’ultimo evento, gli altri mi sono stati raccontati prima e li ho approfonditi personalmente poi. Quel che stiamo vivendo oggi è qualcosa di totalmente nuovo, di impossibile anche solo da immaginare fino allo scorso agosto, momento nel quale è iniziata la stagione sportiva che è stata totalmente sospesa per una criticità sanitaria che è molto più difficile da affrontare. Siamo abituati a fronteggiare da soli proteste, principi di rissa, insulti dagli spalti: a buona ragione ci consideriamo e veniamo considerati soggetti dalla “spalle larghe”, in grado di superare a piè pari difficoltà improvvise basando la nostra azione sul regolamento, un manuale che ci aiuta ad interpretare correttamente il gioco. A volte sbagliamo ma siamo esseri umani. Oggi tutti noi (e non mi riferisco agli arbitri e nemmeno ai soli italiani) siamo chiamati a fronteggiare un nemico subdolo, invisibile, contro il quale non abbiamo armi specifiche ma solo cure debilitanti per il corpo e per la mente. Un nemico che non vediamo ma che può attaccare chiunque. Quasi nessuno di noi è uno scienziato, un medico, un virologo, perciò non siamo autorizzati a dare consigli, a fornire linee di comportamento, ad imporre uno stile di vita che possa assicurare la salute. Per tali motivi abbiamo il dovere di seguire chi ha studiato, chi è preposto a guidare la comunità in un periodo critico. È normale che non tutti siano d’accordo: accade anche a noi in campo. Spesso decidiamo correttamente ma i calciatori, i dirigenti, il pubblico ci attaccano: possiamo reagire con un sorriso se la protesta è lieve, con una reprimenda se la protesta è grave, con le sanzioni disciplinari se le rimostranze sono intollerabili. Ciononostante la nostra autorevolezza deve essere sempre rispettata, così come dobbiamo rispettare anche chi non ci piace, per evitare di passare dalla parte del torto, perdendo qualsiasi autorevolezza. La nostra esperienza dobbiamo ora riversarla nell’emergenza, rispettando quel che ci viene imposto da scienziati che non conosciamo, da politici che magari non ci piacciono, da autorità che ci impongono comportamenti che non apprezziamo perché limitano la nostra libertà. Lo so, alcuni di voi stanno pensando “abbiamo pochissimi casi di contagio, perché dobbiamo vivere da reclusi da giovani?”. È legittimo pensarlo, soprattutto per ragazzi nel pieno delle forze e che si sentono invincibili. In questo caso, però, c’è un concetto più ampio di cui dobbiamo tener conto: prevenire questa infezione tutela più i nostri cari che noi stessi. Tutti abbiamo i genitori o qualche parente stretto più “anziano”. Tutti voi avete in sezione dei dirigenti con i capelli bianchi. Tutti conosciamo almeno una persona immunodepressa a causa di patologie acquisite o congenite. Ecco, rispettare le regole, in questo caso, non è una necessità per tutelare solo noi stessi ma soprattutto chi amiamo. Possiamo sentirci invincibili, ma esistono persone che stanno rischiando la vita per colpa di comportamenti irresponsabili di chi vuol vivere come se nulla fosse, magari spostandosi dal nord al sud fregandosene altamente delle possibili conseguenze. Non so dirvi se questo contagio sia più pericoloso o meno pericoloso di altri. Mi sto fidando di chi è preposto alla cura, mi sto fidando degli appelli di medici ed infermieri che affrontano in prima linea l’emergenza negli ospedali, mi sto fidando dei dirigenti sanitari che ci chiedono di aiutarli a non diventare diffusori del virus. Vivo in Lombardia, in una zona (Como) che non è stata colpita severamente come altre realtà (penso a Lodi o Bergamo, per esempio). Spero che non arriveremo nemmeno a sfiorare quei numeri. Nonostante ciò ho deciso di seguire fin da subito il consiglio di chi auspicava a tutti di rimanere a casa il più possibile. Sono a casa dal 29 febbraio. Ho la fortuna di avere un lavoro che mi consente di non interrompere l’attività nonostante la scelta di non recarmi in ufficio: telefono, videochiamate, mail mi sono sufficienti per portare avanti fascicoli che non possono essere semplicemente accatastati. Non è facile, ve lo assicuro. Non sono più un ragazzino e nemmeno un adolescente ma stare in casa mi pesa eccome: amo uscire, vedere gli amici, passeggiare sul lago, consumare una pizza con chi passa la vita con me. Però dobbiamo essere lucidi ed affrontare la realtà. La prima operazione è di razionalizzare quel che sta accadendo, ponendoci delle domande e rispondendo sulla base delle informazioni a disposizione. 1 – Questa emergenza sarà infinita? R: No, non sarà infinita. E’ un periodo di qualche settimana che finirà più velocemente se tutti assieme ci mettiamo in testa di sostenere qualche sacrificio personale. Sarà più lunga se la gente continuerà a fregarsene degli altri, assumendo comportamenti irrispettosi della salute propria ed altrui. 2 – Perché devo farlo io se c’è gente che se ne frega? Perché non siamo stupidi come loro. Chi si autoimpone qualche giorno in casa non sta mancando di rispetto al tempo che ci è concesso su questo pianeta. In realtà sta regalando tempo in più a tante persone con problemi di salute a cui potremmo passare senza volerlo un virus che potrebbe ucciderli. 3 – Siamo giovani, perché non stanno a casa i malati? Perché gli anziani e le persone malate spesso passano gran parte del loro tempo a casa, possono essere contagiate dal virus esattamente come ogni persona ma corrono meno rischi se vengono a contatto solo con figli o parenti che non passano serate accalcate con decine di persone sconosciute e potenziali veicoli di contagio. 4 - “Vabbé, se mi ammalo sono giovane, i giovani non muoiono”. Forse è vero che non muoiono ma non pensiate che non finiscano in rianimazione. Ad oggi il 10% circa dei pazienti in rianimazione è rappresentato da giovani sotto i 30 anni. Magari non muoiono ma ricordatevi questo: dalla rianimazione non si esce mai come prima. Qualcuno starà pensando: “ma ha appena scritto che non è un medico, si contraddice lanciandosi in affermazioni da tuttologo!”. In questo caso parlo non da medico ma (purtroppo) da ex-paziente: in rianimazione non ci ho vissuto ma per una settimana nel 2014 sono stato ospite della terapia intensiva. Ho rischiato di lasciare la vita a causa di un problema cardiaco. E no, non si esce dalla terapia intensiva come prima, figuratevi dal reparto di rianimazione... Dalla terapia intensiva sono uscito forte quasi quanto prima: lucido, senza alcuna problematica seri,a ma non come prima. Sto benissimo, non lo nego. Ma ho dovuto rinunciare a tanti piccoli vizi che avevo prima: meno dolci (e vi assicuro che questa privazione per me è una sofferenza…), limitazioni alimentari varie, alcune pastiglie che devo prendere ogni giorno per evitare il ripetersi di eventi del genere. Vi sembra poco? Non è poco, anche se sono consapevole di essere stato molto fortunato rispetto ad altre persone che sono uscite da quel reparto con una vita distrutta. Non sono in grado di dirvi come comportarvi. Volete uscire per una corsetta? Fatelo. Ho chiesto alla mia dottoressa se fosse possibile e mi ha raccomandato solo di tenermi a distanza da chiunque, di andare a correre da solo in posti isolati, in luoghi ove non sia inevitabile incontrare altre persone che corrono. Per il resto pensate che è una rinuncia momentanea. Che rispettare le regole è un modo per poter accorciare al minimo indispensabile quel che stiamo soffrendo, per poter tornare quanto prima alla realtà di ogni giorno. Per tornare in campo a svolgere l’attività che amiamo. Vivere. #StiamoACasa

Luca Marelli

Comasco, avvocato ed arbitro in Serie A e B fino al 2009, accanto alla professione si occupa di portare qualche spunto di riflessione partendo dal regolamento, unica via per comprendere ed interpretare correttamente quanto avviene sul terreno di gioco. Il blog (www.lucamarelli.it) è nato come un passatempo e sta diventando un punto di riferimento per addetti ai lavori ed appassionati.

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