Non lo nascondo: è veramente complesso, in questi giorni, vivere la quotidianità fingendo che là fuori, negli ospedali in particolare, non stia accadendo qualcosa che (quasi) nessuno di noi ha vissuto in passato.

Per una volta non vi voglio parlare di arbitri e di tecnica: avremo tutto il tempo nel momento in cui questa emergenza finirà.
No, non andrà tutto bene.
Non andrà tutto bene perché sta già andando tutto male.
Ne usciremo, questo è certo: magari con le ossa rotte, con problemi economici, con qualche amico o parente da piangere ma ne usciremo.
Però non potrà andare tutto bene perché contare i morti a migliaia è qualcosa che nemmeno guardando i più disperati B-movie avremmo mai potuto pensare come ipoteticamente possibile.

Per la prima volta stiamo combattendo una battaglia planetaria, con l’eccezione di alcuni paesi che o non sono stati colpiti direttamente oppure, semplicemente, negano.
Auguro a questi ultimi paesi di aver scelto la strada giusta ma sono intimamente convinto che oggi più che mai dobbiamo ringraziare di essere nati in un paese con mille problemi ma con una comunità medico-scientifica di prim’ordine.
È vero, abbiamo falle organizzative (soprattutto nel centrosud Italia), abbiamo strutture vecchie ed organici sottodimensionati.
Per fortuna, però, abbiamo anche menti eccelse, personale infermieristico pronto a rischiare la vita per il bene comune, volontari che si sobbarcano turni impossibili, lavoratori che ci consentono di non soffrire crisi di approvvigionamento dei beni di prima necessità.
Ringraziamoli.
E basta.
Così come dobbiamo ringraziare chiunque doni una parte della propria ricchezza (anche la più miserrima) per aiutare la comunità in un periodo che non sappiamo quanto potrà durare ma che, certamente, diventerà parte della storia.
Della storia dell’umanità, non solo dell’Italia.

Per una volta approfitto di questo spazio per parlare in prima persona, senza diplomazia (come normale) e senza remora alcuna.

Nei giorni scorsi l’emergenza ha colpito profondamente la mia sezione di appartenenza.
Como è ancora, tutto sommato, un’isola felice, con un numero di contagiati molto limitato anche se il tributo di vittime non manca nemmeno in riva al lago.
Luigi Frusciante è stato una colonna della sezione di Como per oltre cinque decenni.
Conta poco la sua carriera arbitrale (di ottimo livello, peraltro), conta poco il fatto che sia stato anche presidente della sezione.
Quel che conta è che ho sempre identificato Gigi con la sezione di Como.
Sono entrato a farne parte nel 1994 e lui c’era.
Sono passato al CRA e lui c’era.
Ho scalato tutte le categorie possibili in Italia e lui c’è sempre stato.
Sono stato dismesso e lui c’era.
Sono stato costretto a dimettermi e lui c’era.
Non c’è più ma c’è ancora.
Gigi è morto lunedì scorso.
Forse non è stato portato via dal coronavirus ma col coronavirus.
Poco importa.
Quel che conta è che oggi piangiamo la scomparsa di un uomo che non si può certo definire schivo.
Anzi, era esattamente il contrario: amava la compagnia, le sua barzellette sono uno dei ricordi più vividi della mia esperienza arbitrale, la sua brillante intelligenza un luogo in cui rifugiarsi.
È sempre rimasto a disposizione della sezione, ovviamente nei limiti del possibile, considerando che ha dedicato la vita alla medicina ed alla cura dei pazienti delle frazioni di Sagnino e Monte Olimpino.
Ciò che addolora immensamente è che nessuno di noi, nessuna delle persone con cui ha condiviso decenni di sezione, abbia potuto salutarlo.
Non dico degnamente: non abbiamo potuto proprio salutarlo nemmeno da lontano, nessuno ha potuto partecipare all’ultimo saluto per il divieto di celebrare servizi funebri.

Una situazione che, come detto, nessuno di noi ha vissuto nella propria vita.
Neanche mamma e papà, nati dopo la seconda guerra mondiale, hanno mai vissuto qualcosa di simile.
Ieri ho incontrato un mio vicino di casa, classe ‘34, 86 anni portati splendidamente col quale mi sono intrattenuto in una lunga chiacchierata (a distanza di cinque metri, lui dal suo giardino ed io dal mio).
Un passaggio in particolare mi ha colpito: “durante la guerra Como non è stata mai bombardata ma è sempre stata una zona di trincee. Il lago era un luogo di conflitti tra noi e chi attaccava. Spesso capitava di sentire colpi di mortaio e mitragliatrici che spezzavano il silenzio della notte.
Avevamo paura, certo, però eravamo organizzati: avevamo sempre una coperta vicino, appena si udivano i primi colpi scappavamo nel bosco e dormivamo all’aperto.
Era rischioso, ovviamente, come ogni guerra.
Sapevamo, però, che non ci avrebbero cercato nei boschi vicino a casa.
Questo virus è molto peggio della guerra: non guarda in faccia a nessuno, non avverte, non emette alcun suono, non lo vediamo.
E, soprattutto, non c’è (ancora) un’arma che possa sconfiggerlo”.

La paura delle persone anziane?
No, esattamente il contrario.
Il mio vicino di casa è una persona meravigliosa, non ha paura di nulla.
Semplicemente rispetta il nemico sebbene lo odi profondamente.
Quante volte abbiamo sentito l’affermazione “è un virus che ammazza soprattutto uomini anziani con difese immunitarie limitate”?
Tante, troppe volte: come se fosse accettabile perdere migliaia di nonni.
La cinicità di uomini senza valori, come il presidente del Brasile Bolsonaro che ha affermato “gli italiani stanno morendo in tanti perché sono una popolazione vecchia”. Come se avere un tenore di vita tale da consentirci di vivere più a lungo fosse un problema.

Non andrà tutto bene.
Non è facile vivere in queste condizioni.
Non è facile per nessuno tranne per chi se ne frega. Per chi esce a portare il cane in giro (ho scoperto che esistono tanti animali domestici con problemi seri di incontinenza dato che devono uscire in continuazione), per chi compra un pacchetto di sigarette al giorno, per chi si svaccava sul divano da mane a sera ma oggi non può fare a meno di una corsetta nel parco, per chi “come si può stare a casa con una così bella giornata?”.
Ebbene, scrivo mentre fuori ci sono 21 gradi, un sole meraviglioso, un’aria salubre grazie anche all’abbassamento dei livelli di inquinamento (qualcosa di positivo c’è in questi giorni di blocco totale).
Ma sono in casa.
Scrivo davanti ad un computer, lavoro con la webcam, invio documenti via mail, parlo al telefono con chi ha necessità.
Sono a casa da 20 giorni esatti (mi sono isolato il 29 febbraio scorso), sono uscito due volte (solo per fare la spesa per me e per i miei genitori), soffro terribilmente ma ho una coscienza.
Potrei uscire più spesso, tanto non sono in un’età particolarmente a rischio.
Non si tratta di dare l’esempio.
Si tratta di rispetto per il prossimo, di rispetto delle regole.
Non ho più la tessera da arbitro e me ne dolgo ogni giorno.
Ma il rispetto delle regole rimane, sempre e comunque.

Luca Marelli

Comasco, avvocato ed arbitro in Serie A e B fino al 2009, accanto alla professione si occupa di portare qualche spunto di riflessione partendo dal regolamento, unica via per comprendere ed interpretare correttamente quanto avviene sul terreno di gioco. Il blog (www.lucamarelli.it) è nato come un passatempo e sta diventando un punto di riferimento per addetti ai lavori ed appassionati.

Commenti (1)

    • Manuela
    • 2020-03-21 14:38:32
    Ciao Luca. Prima di tutto volevo dirti che mi piace un sacco “leggerti”. Mi piace sapere che hai condiviso un ricordo del tuo vicino al tempo della guerra:!qualcuno dice che anche questo periodo di coronavirus è parsgonabile al “tempo di guerra”. A Schignano è morto Martino (non so se te li ricordi), il nostro vicino “di fronte”. Purtroppo nessuno ha potuto salutarlo a causa del divieto, ma l’abbiamo pensato tanto (facendocelo bastare). Un po’ come hai fatto tu con “Gigi”: lontano, ma vicini. Buona continuazione, Manuela ????
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